Una nota quasi-critica su “Silenzi friulani”

dalla nebbia

 

Ieri sera, 5 giugno, abbiamo inaugurato la mostra “Silenzi friulani” al Museo Gortani di Tolmezzo.

Sono molto contento della serata, l’affluenza e la partecipazione sono andati oltre ogni aspettativa e l’affetto che mi avete dimostrato è stupendo.

Ringrazio ancora tutti coloro che mi hanno supportato in questo progetto:

Glauco Venier per le sue musiche e le sue parole

Giorgio Celiberti per il titolo della mostra, le sue belle parole e per la stima dimostratami

Roberto Siagri (presidente del museo) per avermi dato questa splendida opportunità

il Museo “Michele Gortani” per la disponibilità

Erika Adami e Raffaella Bassi per il tempo dedicato a scrivere una nota sulle mie immagini

Marzia Pasianotto e Marco Costantino di quintessenza comunicazione per lo studio e la realizzazione grafica

Alessandra Ambrosini per aver curato tutti gli aspetti burocratici e di allestimento

Il platina per il delizioso e raffinato buffet

Le cantine DRI per il superlativo vino Ramandolo

La graphitsudio per le stampe offerte,

infine, ma non da ultimi, tutti coloro che hanno partecipato all’evento.

Qui di seguito riporto la nota preparata da Erika Adami e Raffaella Bassi:

 

uscita
Glauco Comoretto racconta la sua terra, dai monti al mare, percorsa nei silenzi dei suoi paesaggi avvolti da brume invernali, nei filari di gelsi nelle campagne, nelle marine infinite, nei lavori delle vigne, che, unici o quasi, testimoniano la vitalità dell’uomo.

 

 

Il titolo “Silenzi friulani” esprime perfettamente il senso dei lavori di Glauco Comoretto: il tema del Friuli, terra dalle mille sfaccettature, viene di volta in volta interpretato con sensibilità e poetica versatilità. L’autore si lascia guidare dalle suggestioni che il soggetto stesso gli offre, è l’eterogeneità dei luoghi e delle situazioni a dettare la scelta tecnica o espressiva. In molte fotografie la composizione riprende e trasforma i canoni stilistici più classici facendo intendere un lavoro mai improvvisato e frutto del caso, ma sempre compassato e attento. Nelle sue composizioni l’attenzione viene guidata dalla fermezza e vigore delle linee verticali poste quasi mai centralmente, secondo la “composizione dei terzi”, ma importante è il contrasto con la linea dell’orizzonte che spesso è forzatamente ribassata o rialzata. Difficile è pensare a queste immagini come scatti digitali, la musica che si sente è quella del dispositivo per l’avanzamento della pellicola fotografica, il profumo che si sente è quello degli acidi dello sviluppo e del fissaggio. Per godere appieno delle foto di Glauco Comoretto serve il tempo dell’asciugatura.

 

Come in un reportage il fotografo deve vivere la storia, essere nella scena e amarla, ma non può restarne intrappolato, così nelle opere di Glauco Comoretto il legame tra l’autore e i suoi soggetti è evidente, ma il suo ruolo è quello dell’osservatore che si tiene leggermente in disparte abbracciando scene sempre molto ampie.

Se il soggetto della mostra è il Friuli, il vero tema conduttore è in assoluto il silenzio.

Rimanendo in silenzio Comoretto diviene come i silenzi che raffigura: in attesa di un suggerimento,  accettando lo scorrere della vita dove il respiro della natura e dell’uomo sono sospesi -come nella speranza di una trasformazione- e dove la dominante è la nostalgia.

 

Colpiscono i silenzi di quei paesaggi dalle atmosfere rarefatte, come in “Dalla nebbia” e “Uscita”, la scelta di raccontare soprattutto l’inverno della natura (stupenda la foto “Tra i piani”), come se quegli scatti fossero l’immagine dei suoi stati d’animo, di un momento difficile della vita (emblematico nel titolo “Monologo”).

Efficaci e bellissimi gli spazi grigi sconfinati di nebbia e di nuvole, dove qualche scura forma solitaria -albero, scoglio o paletto- ha comunque la grandezza e la fragilità di una presenza umana.

L’autore sembra andare a svuotare la composizione, a eliminare tutti gli elementi non utili, ma mentre compie questa azione -prima di tutto mentale- a prendere il sopravvento è la luce. In scatti come “Nostalgia” o “Dai Vertici”, Comoretto lascia il cielo co-protagonista della scena, si tratta di un cielo grigio piatto pregno di luce ed è lei, la luce, che infine diviene protagonista assoluta. Una luce che invade la scena, che riempie l’inquadratura (ancor più di quanto non amasse fare Tullio Stravisi).

 

Cambia lo sguardo di Comoretto quando si posa sulle architetture. La malinconia che condiziona l’intero percorso di mostra, si alleggerisce in questa piccola sequenza di scorci. È evidente il richiamo alla tradizione della fotografia europea, il ricordo è chiaro, le immagini che si formano nella nostra mente sono certamente quelle dei grandi maestri degli anni Cinquanta (come il tanto studiato Henri Cartier-Bresson) e Comoretto sembra essere perfettamente dentro quella cultura visiva. Classico è l’uso delle architetture e della luce, che attraverso di esse filtra nel quadro, come si trattasse di quinte teatrali, così come aderente a quel linguaggio è la presenza sfacciatamente casuale dell’uomo, lo vedremo in “Paese di mare”, o indicata ma non ritratta, come in “Colori”.

A colpire ancor di più e a rendere queste immagini davvero fuori dal tempo e intrise di un forte sentimento di nostalgia è la totale assenza di segni della contemporaneità, nessuna pubblicità, traccia di tecnologia o automobile che possano datare la ripresa.

Infine l’opera dal titolo augurale “Fenice” (che sebbene scattata un anno fa oggi la si può intendere come un omaggio a Mario De Biasi), è la più densa di contraddizioni ma anche l’unica messaggera di speranza: un bacio leggero, spensierato, innamorato su uno sfondo di architettura industriale in rovina.

Concettualmente e stilisticamente simili sono “Colli”, “Geometrie” e “Resisto”, un meraviglioso trittico di grafie, di segni lasciati nel paesaggio dall’uomo, uomo che –di nuovo- è visibile solo grazie ad essi.

 

In “Ali di roccia”, così come negli scatti delle ultime due sequenze, il chiaroscuro si fa più forte, il contrasto (alla Ansel Adams) da valore alle forme, i cieli scuri qui sono carichi, pesanti, e la luce disegna le nuvole e scalfisce le rocce, i contorni sono vividi e i dettagli indispensabili per la lettura dell’immagine, come in “Chiesa di montagna” e “Bianco intorno”. L’ultima sequenza aggiunge poi -grazie al sapiente uso di filtri e obiettivi- la deformazione, l’esagerazione, l’iperbole di “Maschera in cielo” che nel titolo porta il gioco che tutti, alzando lo sguardo, abbiamo fatto da bambini e alle volte continuiamo a fare.

 

A chiudere il percorso di mostra l’unica foto dove l’uomo, sebbene immerso nella natura e quasi a essa assimilabile, è davvero protagonista della scena. Si tratta comunque di un uomo che vive in relazione con la terra, ne è parte e la trasforma con rispetto. In “Dalla terra e dal cielo” (non c’è Sebastiao Salgado, che pure Comoretto ama tanto) non ci sono i volti di uomini e donne ritratti nello sforzo e nella miseria, non i muscoli tesi all’apice dello sforzo, c’è invece l’epica del lavoro e la sua ritualità. Quel gesto ritmato che compiono gli uomini, silenzioso e frastornante –forte come l’ossimoro che lo descrive- arriva da lontano, quel gesto che è la tradizione stessa della cura della terra.

 

In tutto il lavoro fotografico qui esposto sembra che l’autore sia alla ricerca di qualcosa di perduto – se stesso? La memoria delle sue radici? Delle radici della sua terra? – e in questa ricerca verso l’”autentico” c’è malinconia, voglia di riscatto, ma anche una timida speranza.

 

C’è una parte del cammino di Glauco Comoretto in quelle foto, con i suoi incontri, le sue ferite, i suoi interrogativi. Che ora decide di condividere, quasi una catarsi dei pensieri e delle emozioni. Un po’ il ritratto della sua anima, raccontata attraverso la natura che lo circonda, non tanto madre, quanto testimone -silenziosa appunto- della sua storia.